Det stora äventyret

Diretto da

Anders, ora adulto, ricorda un episodio della sua infanzia. Egli è cresciuto insieme al fratello minore in una fattoria svedese, al margine di una grande foresta popolata di animali selvatici: la volpe con i volpacchiotti, la lince, la lontra, il gufo, il coniglio e la lepre, tutti che si danno la caccia l'un l'altro o che attaccano il bestiame della fattoria. Il grande segreto di Anders e di suo fratello, un segreto che dura per tutto l'inverno, è che sono riusciti a salvare una giovane lontra catturata da un pescatore, nascondendola in una gabbia in soffitta. Il notevole appetito della bestiola mette a dura prova le risorse dei fanciulli. Con il sopraggiungere della primavera e il risveglio della natura il fratello minore lascia libera la lontra. Anders, sconsolato, corre verso il lago. Quando l'animaletto, percependo la nuova stagione, scompare, Anders si rende conto improvvisamente che si è conclusa una grande avventura e che «nessuno, per quanto dolce come guardiano, può ingabbiare un sogno ben vivo per molto tempo». E mentre guarda le gru attraversare il cielo, di ritorno dal loro soggiorno invernale al sud, il ragazzo capisce il significato della liberazione e perdona il fratello.

Titolo internazionale
The Great Adventure
Titolo tradotto
La meravigliosa avventura
Genere
Finzione
Paese
Svezia
Anno
1953
Durata
94'
Produttore
Arne Sucksdorff
Casa di produzione
Sandrew Film
Lingue
Svedese
Approfondimento

A proposito di The Great Adventure

«È l'amore per il regno della natura, e soprattutto per gli animali, ad alimentare la maggior parte della produzione di Sucksdorff. In questo il regista non è l'unico; recentemente, infatti, sono stati realizzati diversi film di soggetto simile, nei quali il mondo naturale è arricchito dalle emozioni e dall'atteggiamento dell'osservatore.

Ad una estremità troviamo la Disney con le sue principali caratteristiche: un vago, ma sincero, stupore per le dimensioni e la varietà offerte dal mondo della natura, e un sorriso di sollievo nel riconoscere, con atteggiamento antropomorfico, la possibilità di paragone con il mondo umano. Gran parte del materiale raccolto da Disney e dai suoi colleghi è veramente spettacolare, ma i loro film risentono di un certo sentimentalismo (l'unica vittima in tutto The Living Desert è stato un pipistrello su diverse migliaia) e di generalizzazione. Nel complesso, i prodotti della serie True Life non mettono in evidenza la relazione tra gli animali e l'ambiente, mentre in questo sono riusciti la produzione ungherese Il regno sull'acqua e il delizioso documentario russo Storia di un anello, ambedue contraddistinti da un acuto senso dell'ambiente. Ma solo Sucksdorff ha infuso elementi poetici all'ecologia.

Se, diversamente da Disney, egli non distorce mai questo suo mondo, lo racchiude però entro limiti molto netti. Per il compatriota di Strindberg la natura è, fondamentalmente, quella feroce. Sono i predatori, infatti, ad attirare di più la sua attenzione. Questo è riscontrabile sia in una sua opera precedente (Un mondo diviso) sia ne La meravigliosa avventura. La lince, la volpe, la lontra e i galli cedrone, brutali nei loro accoppiamenti, sono i suoi eroi, mentre i cervi esistono esclusivamente per essere spaventati, le lepri perché siano messe in fuga, i tuffetti per essere divorati. E questa inclinazione a dare un sapore particolare al film: quello di una feroce sensualità, primitiva e raffinata allo stesso tempo. Tale contrasto è rafforzato anche dall'ambientazione, una foresta svedese greve della foschia umida estiva e delicata nei contorni netti disegnati dal clima invernale. Sucksdorff tuttavia, non impone questo stato d'animo né alcun valore allegorico agli animali che osserva. I suoi volpacchiotti si contendono un pollo riducendolo a brandelli, per poi giocare al sole un attimo dopo o arrampicarsi su di un ramo o attraversare un ruscello di montagna. Mai sono state colte immagini di animali più complete e accattivanti di queste. La lontra e la volpe che fanno le capriole insieme e, episodio ancor più raro, un maschio di quest'ultima specie che danza con il bucato steso ad asciugare. Una pari sensibilità va ad arricchire anche l'atmosfera. La sequenza iniziale del film è incantevole, un mondo di foschia e luce mattutina, di rugiada e ragnatele, di bolle che attraversano misteriosamente l'acqua dei fiumi dove le lontre cacciano le loro prede. Sul piano compositivo, il film è affascinante: il granoturco che ondeggia, le canne immerse nelle paludi fangose, il disegno degli alberelli che spicca sul bianco della neve hanno la grazia e la delicatezza lineare di un Hokusai o di un Utamaro. Inoltre, avvalendosi di un magnetofono, Sucksdorff ha composto una elaborata colonna sonora che raccoglie i penetranti richiami e i respiri della foresta.

Nel film si distinguono due parti. La prima narra la vicenda dei volpacchiotti, la seconda quella della lontra salvata e tenuta prigioniera, in segreto, dai due ragazzini che vivono nella fattoria ai margini della foresta. Sucksdorff tenta di metterle in relazione inquadrando il film nell'avvicendarsi delle stagioni, ma bisogna riconoscere che non riesce fino in fondo ad integrare le diverse sezioni. La difficoltà maggiore è rappresentata dal secondo episodio. Nella prima parte il ruolo di Sucksdorff è stato quello di un acuto, dotato e a volte contemplativo osservatore esterno. L'opera, dunque, funziona abbastanza bene fintantoché gli esseri umani vengono visti nel loro più immediato rapporto con gli animali, cioè quello tra cacciatore e preda. Nella seconda metà, l'accento si sposta necessariamente sui bambini, sui loro motivi e sui loro rapporti. Con tutta la destrezza della sua regia, con tutta l'abilità nel far reagire i bambini (specialmente il più piccolo, suo figlio), il metodo seguito è diverso: meno brillante e a volte persino un po' pedestre. Forse questa mescolanza era comunque destinata a fallire [...]». (Tony Richardson, "Sight and Sound", gennaio-marzo 1955, in Le avventure della non fiction, a cura di Adriano Aprà, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1997, pp. 312-313)

«Durato più di due anni di lavorazione, Det stora äventyret si concentra su un ragazzo, una lontra, una volpe e numerosi altri animali; sembrerebbe essere fortemente autobiografico. È il racconto di un adulto che ricorda il tempo in cui, all'età di dieci anni, "mi svegliavo alla vita tutta intorno a me" nella foresta. Si sveglia alla lotta per la sopravvivenza, con le sue crudeltà, all'impetuoso flusso delle stagioni; al sesso. È testimone – e noi con lui – di vari accoppiamenti, compreso quello, chiassoso, del gallo cedrone, "simile all'accoppiamento di draghi preistorici". Det stora äventyret riecheggia un'idea espressa anche in Un mondo diviso (1948): il mondo della natura e quello dell'uomo sono incompatibili. Sia gli uomini sia gli animali uccidono, ma gli animali lo fanno per sopravvivere. Soltanto gli uomini uccidono per motivi diversi, mascherandoli, considerando se stessi strumenti di moralità e giustizia. I bambini sono maggiormente in sintonia con il mondo animale. In Det stora äventyret il ragazzo si allinea con il mondo animale, salvando una lontra che il padre ha deciso di uccidere. Nei film di Sucksdorff i bambini posseggono virtù che vengono in seguito cancellate dalla società.

In Det stora äventyret sono esemplificati i metodi impiegati da Sucksdorff per realizzare scene straordinarie. Alcuni degli animali che osserviamo così da vicino erano animali selvatici e altri erano animali addomesticati che facevano parte del suo zoo personale, che lui si era portato nella foresta. Questi erano liberi di muoversi o di allontanarsi ma in genere rimanevano vicino a lui, così da potere riprendere liberamente le loro attività. È grazie a queste circostanze che possiamo vedere una notevole sequenza giocosa, in cui una volpe stuzzica una lontra. Sucksdorff ha sempre sostenuto che le loro azioni non erano mai estranee al loro carattere; le volpi, diceva, sono burlone inveterate. Altrove nel film osserviamo molto da vicino una civetta su un ramo. All'improvviso vola verso il suolo e afferra e divora un ghiro, mentre la macchina da presa segue lesta l'azione. È quel tipo di ripresa che altri avrebbero atteso, nascosti, per giorni senza successo. Sucksdorff non ha dovuto aspettare; la civetta, una civetta selvatica, era una vecchia amica, cui lui dava spesso da mangiare, quindi non aveva nessun motivo per fuggire quando lui si avvicinava. Sucksdorff ha installato e sistemato la sua macchina da presa, e poi ha tirato fuori di tasca un ghiro che si era portato con il suo zoo. Gettandola ai piedi dell'albero, sapeva bene quale azione sarebbe seguita ed era pronto a riprenderla.

A causa di queste sequenze Sucksdorff è stato accusato di una vena di sadismo: la crudeltà che emergeva dai suoi film era spesso fomentata da lui. Ma lui ha difeso queste azioni in quanto naturali: aveva sì preparato la scena, ma non aveva in alcun modo tenuto sotto controllo lo sviluppo dell'azione. Il suo metodo non era dissimile da quello di Flaherty che, come nella sequenza del tricheco in Nanook e in quelle dello squalo nell'Uomo di Aran, ugualmente aveva predisposto il palcoscenico per il conflitto e poi aveva lasciato fare alle cose il loro corso. Sucksdorff considerava la crudeltà un ingrediente essenziale nel mondo che voleva ritrarre. Detestava le rappresentazioni sentimentali della natura, quali quelle del suo coevo svedese Gösta Roosling, la cui opera era ugualmente in voga [...]». (Erik Barnouw, Documentary. A History of the Non-Fiction Film, Oxford University Press, Londra/Oxford/New York 1974, in Le avventure della non fiction, edited by Adriano Aprà, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1997, pp. 315-316)

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